Lo scopo di ogni pacemaker cardiaco è quello di attivarsi quando l’organo ne ha bisogno, dando quindi quell’aiuto necessario per permettere al cuore di continuare la sua funzione e salvare la vita del paziente. Almeno, così dovrebbe essere.
Così non è però accaduto a una 42enne di San Donato Milanese, ora in coma vegetativo, perché il suo pacemaker cardiaco, proprio quando ve ne era più bisogno, non è entrato in funzione. A causa di quell’apparecchio mal funzionante impiantato nel 2008, la donna si trova da 4 anni e mezzo in coma. Per questo la società distributrice e due suoi ex manager, accusati di lesioni colpose gravi, sono stati condannati a pagare oltre un milione di euro di risarcimento danni alla vittima e ai parenti della stessa.
La tragedia per la donna del basso milanese ha avuto inizio a ottobre 2010, quando il cuore dell’infermiera 42enne si è fermato improvvisamente. Il suo pacemaker cardiaco – defibrillatore, (impiantatogli nel 2008 e distribuito dalla St. Jude Medical Italia, anche se prodotto negli Usa dalla casa-madre statunitense), secondo ciò che ha riferito l’accusa, non sarebbe riuscito a dare la scarica elettrica in grado di rimettere in moto il cuore. A riuscirci sarebbero stati invece i sanitari del 118, i quali però sarebbero intervenuti quando era già troppo tardi per evitare che il cervello della donna subisse danni permanenti dovuti al blocco della circolazione del sangue.
Le indagini sono state avviate inizialmente dal pm milanese Ferdinando Esposito e in seguito portate avanti dal viceprocuratore onorario Alberto Dones. Si sono quindi concluse con l’accusa di lesioni colpose gravi per il presidente e l’amministratore delegato della St. Jude Medical Italia. Secondo quanto sostenuto dal pm, il software del pacemaker cardiaco non sarebbe stato aggiornato, come invece avrebbe dovuto al fine di garantire il proprio funzionamento. E questa mancanza si sarebbe verificata nonostante, a gennaio 2008, la casa costruttrice avesse fatto arrivare una segnalazione di allarme alla Food and Drug Administration (ente di controllo statunitense) che non sarebbe però stata recepita in Italia dai Ministeri della Salute e dello Sviluppo economico.
L’avvocato difensore della società ha sostenuto che il pacemaker cardiaco funzionava regolarmente e che il software era aggiornato. I legali degli imputati hanno affermato che l’apparecchio aveva svolto il suo compito, ma sfortunatamente la paziente era affetta da una “patologia molto grave”. E’ già stato annunciato dalle difese il ricorso in Appello contro la condanna subita.
Per le lesioni subite dalla donna, il giudice ha condannato gli imputati del processo a 2.000 euro di multa ciascuno. La società distributrice è stata invece condannata a un risarcimento danni alle parti civili. Nello specifico: 476 mila euro alla donna, 100 mila euro ciascuno al marito e ai loro tre bambini e un totale di 41 mila euro ai tre fratelli e alla suocera. E’ stata invece prescritta la contravvenzione per l’immissione sul mercato di “prodotti pericolosi”. Questo tipo di accusa era stata modificata dal Pubblico Ministero in “adulterazione” di medicinali, chiedendo inoltre di trasmettere gli atti alla Procura al fine di poter procedere contro gli imputati e i Ministri allora in carica, i quali non avrebbero impedito che il pacemaker cardiaco fosse messo in commercio.
Dott. Claudio Bonato
AL Assistenza Legale
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