Malasanità è un termine di natura giornalistica che serve a indicare quell’insieme di avvenimenti e situazioni che rendono evidenti le disfunzioni del sistema sanitario.
È quindi un termine nato dal linguaggio giornalistico, utilizzato in passato a indicare una denuncia degli errori all’interno della sanità e divenuto ora di uso pubblico.
La sua storia è però molto più antica di quello che ci si potrebbe immaginare. Sembrerebbe che le radici della parola risalgano alla seconda metà del Settecento, periodo in cui visse Sir William Blackstone, giurista e accademico britannico, professore presso l’Università di Oxford, ma anche membro della Camera dei Comuni e Giudice. Tra i suoi scritti , quello che lo rese celebre furono i suoi “Commentaries on the Laws of England” considerati tuttora una fonte primaria degli orientamenti classici del common law nei quali venne usato per la prima volta il termine “mala praxis”.
Il termine “mala praxis” venne poi trasformato in “malpractice”, una parola che in giurisprudenza ha un significato simile a “negligenza”, riferito però agli svariati aspetti dell’attività medica. Col tempo il termine è stato ulteriormente ripreso, se ne hanno infatti testimonianze in giornali medici di tutto il XVIII secolo. Ma la vera diffusione del termine si ebbe nel XX e XXI secolo. Infatti, soprattutto verso la fine del Novecento e l’inizio del Duemila, malasanità (malpractice) venne usato come termine di denuncia. Furono molti i casi portati alla luce, soprattutto grazie alla fiorente attività giornalistica del periodo. In seguito a queste denunce l’opinione pubblica fu destata e la sua attenzione fu focalizzata su un problema che fino a qualche decennio prima non aveva nemmeno una definizione d’uso comune.
Eppure, anche se l’attenzione sul problema dell’errore medico e del danno conseguente è stata particolarmente presente negli ultimi due decenni, la consapevolezza del danno in medicina e gli sforzi per ridurlo sono vecchi quanto la medicina stessa. Basti pensare ad uno dei passi del motto ippocratico presente nel Giuramento che afferma: “Non arrecare danno né applicare trattamenti scorretti ad alcuno”. Ma, come specifica Charles Vincent, professore dell’Imperial College of Science, Technology & Medicine di Londra, nel suo The Essentials of Patient Safety: “la medicina è sempre stata un’attività intrinsecamente rischiosa”. E’ sufficiente considerare la doppia accezione del termine greco pharmakon che assume non solo il significato di medicamento ma anche quello di veleno. La possibilità di arrecare danno pare dunque implicita nella medicina, specialmente quando si opera ai confini della conoscenza e dell’esperienza. Le innumerevoli cure che nella storia della medicina si sono in seguito dimostrate peggiori delle malattie lo confermano: l’uso di sostanze quali mercurio e arsenico o l’utilizzo dei salassi e delle lobotomie ne sono un esempio.
Si potrebbe però credere, visti i progressi della medicina moderna, che il danno al paziente sia una questione appartenente al passato, ma purtroppo non è così. Come scrisse Sir. Cyril Chantrel, professore della London University dal 1990 ed Emerito dal 2001: “Un tempo la medicina era semplice, inefficace e relativamente sicura; ora è complessa, efficace e potenzialmente pericolosa”. Ma questa consapevolezza del rischio di errore in medicina non è stata sempre riconosciuta dai medici come lo è oggi. Come ricorda Vincent, fino al 1994 in Europa il tema degli sbagli in medicina era quasi totalmente confinato al ramo dell’anestesia, anche se con alcune eccezioni. Per far cambiare questa opinione in ambito accademico ci volle il famoso e tuttora spesso citato “Error in Medicine” (articolo edito nel 1994) di Lucian Leape, professore di Harward che basò gran parte della sua carriera sulla ricerca di metodi per diminuire gli errori sanitari. Leape fece notare come, secondo numerosi studi di quel periodo, il tasso di errore in ambito sanitario fosse particolarmente elevato e che la medicina non aveva ancora affrontato la questione in modo serio e adeguato.
Naturalmente, anche prima dell’intervento di Leape, vi sono stati medici e infermieri consapevoli del rischio di errore nel proprio operato e che hanno lavorato al fine di diminuire il più possibile la percentuale di rischio per il paziente. Tuttavia il più ampio movimento per la sicurezza nell’assistenza sanitaria è stato orientato e plasmato da altri fattori tra i quali alcuni casi clamorosi di responsabilità medica, oltre che dalle denunce da parte dei pazienti tramite l’assistenza di legali, ma anche dalle forti pressioni da parte della stampa, dell’opinione pubblica e delle Autorità.
Casi di responsabilità medica
Sono numerosi i casi di responsabilità medica sui quali la stampa e l’opinione pubblica si sono soffermati, tra questi alcuni hanno goduto di maggiore attenzione. Questo non significa che un particolare caso sia più grave di altri, ma semplicemente che ciò che è avvenuto è servito a smuovere l’opinione pubblica e ha suscitato l’attenzione dei media oltre che delle Autorità.
Uno dei primi casi che fecero smuovere sensibilmente l’opinione pubblica italiana e che portarono quest’ultima a interessarsi maggiormente sulla gravità del problema della responsabilità medica fu, probabilmente, quello delle cosiddette “flebo-killer” dell’ospedale Policlinico di Pavia. In questa vicenda, risalente al 1994, persero la vita due anziani ai quali furono somministrate delle flebo contenenti una quantità eccessiva di potassio. I pazienti infatti morirono dopo la somministrazione di “K – flebo”, troppo ricca di potassio, al posto della consueta “soluzione 4″, le cui scorte erano in quei giorni esaurite anche nella farmacia dell’ospedale. Per l’accaduto furono condannati due medici e tre infermieri.
Di qualche anno dopo il famoso caso della camera iperbarica dell’ Istituto Galeazzi di Milano, dove persero la vita 11 persone. Era il 1997 quando nella suddetta camera scoppiò un incendio, vani furono i tentativi di salvare le persone all’interno. Le indagini scoprirono che il tecnico addetto alla sorveglianza non era al suo posto a controllare il monitor di sicurezza e che l’impianto antincendio del macchinario era fuori uso. Per questa terribile tragedia furono condannati l’allora primario, il tecnico in questione e un dirigente sanitario.
Suscitò molto scalpore anche la celebre operazione “Giove” del 2003. Si trattò probabilmente della più grande operazione che sia mai stata effettuata in Italia per combattere la malpractice medica. Durante questa colossale operazione vi furono 4.713 denunce in ogni parte della penisola: furono coinvolti 2092 medici di medicina generale e 62 dipendenti di una nota casa farmaceutica per il reato di comparaggio. Il conto continua con 1.738 medici specialisti e 138 dipendenti della casa farmaceutica per la concessione o la promessa di premi in cambio di somme di denaro o anche di vantaggi sessuali, oltre a 196 individui per il reato di corruzione (tra i quali medici specialisti, farmacisti, primari e direttori di clinica). Il quadro appena delineato è stato smascherato da un’indagine della Guardia di Finanza durata circa un anno, la quale ha portato alla luce il sistema di corruzione finalizzato alla prescrizione, al maggior numero di pazienti possibile, del farmaco in questione, il tutto anche a scapito della salute dei malati.
Fece molto discutere anche il caso avvenuto nel reparto di terapia intensiva coronarica di Castellaneta, in provincia di Taranto, del 2007. In quel reparto furono otto i pazienti deceduti nell’arco di appena quattordici giorni e 23 le persone indagate per omicidio plurimo colposo. Il caso destò grande scalpore perché il reparto, nato come esempio di avanguardia tecnologica in Italia, era stato inaugurato poche settimane prima dei decessi. Si scoprì in seguito che i pazienti erano deceduti perché avevano respirato protossido di azoto anziché ossigeno. Questo era dovuto ad un clamoroso errore, a causa del quale nei tubi di distribuzione dell’ossigeno fu inserito l’agente chimico letale.
Ma non è una questione solo italiana. Negli ultimi venti anni ci sono stati infatti numerosi casi che hanno suscitato l’interesse dei mass media e dell’opinione pubblica di tutto il mondo.
Fra gli episodi più famosi si ricorda quello del reparto di cardiochirurgia pediatrica del Bristol Royal Infirmary. In quel reparto, dal 1984 al 1995, vi fu un numero particolarmente elevato di decessi, pari a circa il 30% dei pazienti, un dato superiore ad ogni altro ospedale nel Regno Unito. L’episodio che però fece scalpore fu la morte sul tavolo operatorio di Joshua Loveday. Nel 1995 il bambino finì in sala operatoria, nonostante in molti sanitari si fossero opposti all’intervento. La sua morte scatenò una dura inchiesta e l’attenzione dei media in seguito alle quali vi furono numerose denunce da parte di genitori i cui figli erano stati curati nello stesso reparto dell’ospedale di Bristol. Nel 1997 il General Medical Council esaminò 53 casi di altrettanti bambini, dei quali 29 avevano perso la vita. Per questa inchiesta 3 medici furono condannati. A denunciare il fatto dall’interno dell’ospedale fu il dott. Stephen Bolsin: anche grazie alla sua denuncia e alla sua collaborazione con le autorità, la mortalità nell’ospedale passò dal 30% al 5% e si instaurò l’avvio di una profonda riforma della Clinical Governance inglese.
Si ricorda anche il caso di Rodney Ledward, ginecologo del South Kent Hospital (sempre nel Regno Unito), i cui errori medici causarono serie lesioni e il decesso di numerose sue pazienti. Almeno 13 furono le donne vittime dei suoi gravi errori: a una paziente furono asportate le ovaie sane senza il suo consenso, altre subirono gravi danni durante le operazioni, danni che compromisero definitivamente la funzionalità degli organi riproduttivi o portarono le stesse alla morte. Il medico fu dapprima sospeso e in seguito licenziato diventando quindi oggetto di una famosa inchiesta pubblica nel 1996.
Ha fatto storia anche la vicenda di Jessica Santillan, ragazzina messicana di 17 anni che nel 2003, dopo aver attraversato illegalmente il confine con gli Stati Uniti per effettuare un trapianto, morì nel Duke University Medical Center di Durham del North Carolina. Alla sfortunata, vennero impiantati organi di un donatore con gruppo sanguigno non compatibile con quello della giovane paziente. Furono vani i successivi interventi. La vicenda interessò la stampa a livello internazionale e commosse l’opinione pubblica di tutto il mondo.
Questi sono solo alcuni esempi dei molti casi che hanno portato l’opinione pubblica ad interessarsi maggiormente dei problemi legati alla malasanità, e spinto i cittadini ad informarsi su quali siano i propri diritti e come poterli far valere. Eppure, nonostante i diversi interventi (link attivo a articolo su cosa è stato fatto contro la malasanità) effettuati negli anni dal Ministero della Salute, i casi di responsabilità medica in Italia sono tuttora numerosi. La sempre maggior consapevolezza dei cittadini sui propri diritti e la continua formazione professionale degli avvocati italiani nell’ambito specifico, stanno però portando ottimi risultati per quello che concerne la giustizia in ambito sanitario. Questo, secondo statistiche effettuate a fine 2012 dall’Associazione Nazionale fra le Imprese Assicuratrici (Ania), permette di poter affermare che in Italia 8 volte su 10 chi denuncia un errore sanitario ottiene un congruo risarcimento danni.