La tutelabilità del “marchio debole” e il fenomeno del secondary meaning

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La tutelabilità del marchio debole e il fenomeno di elaborazione giurisprudenziale del secondary meaning trovano in una sentenza della Suprema Corte una decisiva teorizzazione utile alla soluzione di future questioni.

Sull’uso del marchio in Internet, sulle differenze del marchio forte e marchio debole nonché sulla tipologia (complesso, d’insieme e collettivo) derivante dalla combinazione di più marchi, si trova, oltre a qualche articolo dello scrivente, ampio materiale in dottrina e giurisprudenza. Con questa nota vorrei fare qualche ulteriore considerazione, sempre utile a chi fa impresa, a proposito del “marchio debole”, categoria comprendente tutti quei marchi descrittivi o “espressivi” del prodotto o servizio che contraddistinguono: tali marchi, poiché presentano una ancorché smorzata capacita distintiva per qualche accorgimento grafico, sfuggono alla sanzione di nullità di cui agli art. 13 c. 1 lett. b) e 25 c. 1 lett. b) del codice di proprietà industriale.  

Sappiamo infatti che il marchio, per essere valido e registrabile, deve riportare un termine di fantasia e non una parola di uso comune, rispettando cioè i requisiti di capacità distintiva e di novità. Tuttavia, anche una parola di uso comune può costituire un marchio registrabile qualora non abbia aderenza concettuale con il prodotto o servizio contraddistinto, ma sia collegata ad esso da un accostamento di mera fantasia che attribuisca al termine un carattere originale e quindi un’efficacia individualizzante.

Un caso limite è dato dal noto marchio “Divani&Divani”, usato proprio per contraddistinguere i prodotti menzionati nel segno, ma che per l’intensa pubblicità commerciale e diffusione sul mercato non solo è sfuggito alla sanzione di nullità ma ha rafforzato la propria capacità distintiva, originariamente molto debole, diventando segno distintivo e marchio rinomato.

La controversia legale della società Natuzzi SpA, titolare di tale marchio, con la  Divini & Divani SrL per illecita imitazione del segno distintivo (denominazione sociale e marchio) sfocia in una vicenda giudiziaria che vede l’epilogo nella sentenza della Corte di Cass. Civ. Sez. I – 2 febbraio 2015 n. 1861 che segna alcuni punti fermi per la successiva giurisprudenza:

– la qualificazione del segno distintivo come marchio debole non ne impedisce la tutela nei confronti della contraffazione, in presenza della (concorrente, n.d.r.) adozione di mere varianti formali, inidonee ad escludere il rischio di confusione rispetto al nucleo del marchio imitato cui è affidata la funzione descrittiva.

anche una parola di uso comune può costituire un marchio registrabile, purché non abbia una funzione intrinsecamente descrittiva della qualità del prodotto, ma sia collegata ad esso da un accostamento di mera fantasia che le attribuisca carattere originale ed efficacia individualizzante.

– nell’accertamento della confondibilità dei segni distintivi, occorre effettuare un giudizio finale in via globale e sintetica dell’insieme degli elementi salienti, grafici e visivi; a tal fine è necessario assumere, per quanto possibile, la stessa posizione valutativa del consumatore medio del genere di prodotti al quale il marchio è associato, cioè mediante un raffronto tra il marchio presentato al consumatore ed il mero ricordo mnemonico dell’altro, prescindendo dalla possibilità di un attento esame comparativo.

– è possibile che un marchio, originariamente debole, veda rafforzata la propria capacità distintiva, divenendo forte per effetto del suo diffuso utilizzo di tipo commerciale a livello nazionale e internazionale e del suo duraturo sostegno pubblicitario.

È interessante notare come la Suprema Corte precisa, sul solco di una sua precedente pronuncia, che anche il marchio debole va tutelato a fronte di quelle varianti adottate dall’ipotetico contraffattore che, però, non escludano la confondibilità rispetto al suo nucleo individualizzante, pur rappresentato in questo caso da un elemento descrittivo. Oltretutto, agli occhi del consumatore medio, secondo un confronto non solo analitico ma anche globale e unitaria dei segni in conflitto, non basta quella minima variante (divini anziché divani) ad escluderne appunto la confondibilità.

A conclusione della motivazione la Suprema Corte afferma la possibilità per un marchio originariamente debole di rafforzarsi per intensità di diffusione commerciale e pubblicitaria presso il pubblico, trattandosi del fenomeno noto come secondary meaning.

I giudici di legittimità precisano cioè che tale fenomeno, elaborato ai fini della c.d. riabilitazione o convalidazione del segno originariamente privo di capacità distintiva e quindi nullo come marchio, è stato utilizzato per cogliere ogni evoluzione della capacità distintiva, vale a dire anche come rafforzamento della capacità distintiva del marchio in origine debole ma non nullo.

Milano, 27. 3.2023

Avv. Giovanni Bonomo

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