L’espropriazione per pubblica utilità è un istituto risalente ad una ormai lontana legislazione di settore, di tempo in tempo riformata ed adeguata all’evolvere complessivo dell’ordinamento. All’attualità la disciplina è contenuta nel testo unico espropri (d.p.r. 327/2001 – d.lgs. 302/2002 e successive rettifiche e integrazioni), che ha posto parzialmente termine al caos legislativo e giurisprudenziale che si era negli anni accumulato.
Si tratta di un procedimento necessario per realizzare qualsiasi programma di intervento pubblico, dato che i terreni “demaniali” o comunque in proprietà della pubblica amministrazione, non sono sufficienti, di per sé, a questi fini, né sono sempre localizzati nelle zone dove è necessario intervenire (per la costruzione di strade, ponti, edifici pubblici, scuole, ospedali, quartieri o complessi per l’edilizia pubblica economica e popolare, e così via).
Al concetto di espropriazione deve essere comunque associato il concetto di “garanzia” del privato e di “indennizzo”: non solo è necessario seguire un determinato procedimento, disciplinato partitamente dalla legge, per pervenire all’esproprio: ma è anche necessario assicurare all’espropriato un adeguato ristoro del sacrificio che gli è imposto. Questi problemi sono stati posti all’attenzione non solo ripetutamente della Corte costituzionale ma anche della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. In particolare le decisioni adottate dal giudice di Strasburgo hanno rivoluzionato l’istituto dell’espropriazione adeguandolo maggiormente alla tutela della proprietà, tutela che nel tempo la legislazione farraginosa di settore aveva molto ridotto.
Del resto l’espropriazione per pubblica utilità è stata, da sempre, oggetto di varie tensioni tra pubblico e privato, e di variabili in base alla sensibilità del periodo storico nella perenne ricerca di un equilibrio tra l’interesse della collettività e quello del privato proprietario.
In diritto privato, l’espropriazione è esaminata dal punto di vista dei limiti che si appongono alla libertà del singolo proprietario; anzi, è considerata il limite più grave, perché è destinata a privare il proprietario del suo bene per l’intervento dello Stato, al fine di realizzare un interesse generale. Nel diritto amministrativo, l’espropriazione è esaminata sia nell’ambito dell’analisi delle attività della pubblica Amministrazione, sia nell’ambito dei procedimenti amministrativi, cioè della concatenazione di atti che, seguendo un ordine previsto dalla legge, è destinata a far acquisire alla mano pubblica beni che appartengono al privato, dietro la corresponsione di una somma liquidata a titolo di indennizzo, secondo parametri predeterminati dal legislatore.
È evidente che la prospettiva varia a seconda che il fenomeno sia considerato dal punto di vista del privato o secondo l’ottica della pubblica amministrazione. Nella prima ipotesi, vengono in rilievo soprattutto gli effetti privativi conseguenti all’espropriazione che operano a danno dei proprietari; nel secondo, invece, le ragioni pubblicistiche che giustificano l’elemento privativo sollecitano un’attenzione particolare.
I principi fondanti dell’espropriazione di pubblica utilità
I procedimenti ablatori, di cui fa parte l’espropriazione per pubblica utilità, come dice la loro stessa denominazione, si possono genericamente indicare come quelli con cui il pubblico potere, per un vantaggio della collettività, sacrifica un interesse ad un bene della vita di un privato.
È evidente l’opportunità di prevedere in materia procedure snelle, non farraginose, sì da evitare che i ritardi nell’iter espropriativo arrechino gravi conseguenze agli interessi pubblici e privati.
La dichiarazione di pubblica utilità (o “dichiarazione di pubblico interesse” o “di interesse generale”) è l’atto con il quale il competente organo pubblico accerta e dichiara che una certa opera o un certo intervento è di interesse pubblico, rendendo quindi legittimo il trasferimento coattivo del diritto di proprietà o di altro diritto di un bene mediante un particolare procedimento.
Essa trova, storicamente, la prima compiuta formulazione nell’art. 17 della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino del 26.8. 1889: la proprieté étant un droit inviolable et sacré, nul ne peut en étre privé, si ce n’est lorsque la nécessité publique, légalment constatée, l’exige évidentement, et sous la condition d’une juste e prèalable indennitè.
L’art. 2 poneva la proprietà tra i diritti naturel ed imprescriptibles.
La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati. La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti. La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d’interesse generale (art. 42 Cost.).
A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale (art. 43 Cost.).
Al fine di conseguire il razionale sfruttamento del suolo e di stabilire equi rapporti sociali, la legge impone obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata, fissa limiti alla sua estensione secondo le regioni e le zone agrarie, promuove ed impone la bonifica delle terre, la trasformazione del latifondo e la ricostituzione delle unità produttive; aiuta la piccola e la media proprietà. La legge dispone provvedimenti a favore delle zone montane (art. 44 Cost.).
Nell’esame dei principi costituzionali non possiamo non riferirci ad altri articoli della Costituzione altrettanto rilevanti in materia espropriativa, la cui analisi peraltro viene rinviata ai successivi capitoli del libro (l’art. 117 e l’art. 118).
Il Codice Civile del Regno d’Italia, approvato con r.d. 16.3.1942, n. 262, ancora in vigore, all’art. 832 afferma: il proprietario ha diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico.
E nel successivo art. 834 affrontando espressamente il tema dell’espropriazione per pubblico interesse, dispone: nessuno può essere privato in tutto o in parte dei beni di sua proprietà se non per causa di pubblico interesse legalmente dichiarata, e contro pagamento di giusta indennità.
Questi i principi generali, ma la riserva di legge posta dall’art. 42 Cost. rimette alle leggi ordinarie la concreta determinazione dei poteri discrezionali attribuiti alla p.a. in ordine alla scelta degli organi investiti dal potere espropriativo, l’interesse in considerazione del quale è consentito l’esercizio di quel potere, i beni suscettibili di espropriazione, i soggetti a favore e nei confronti dei quali può aver luogo l’esproprio e il giusto indennizzo, fissando nel contempo le regole procedurali (Corte cost. 11.5.1971, n. 94 in www.giurcost.org).
E le leggi ordinarie, pur nei frequenti sussulti -e correlative oscillazioni giurisprudenziali- hanno in definitiva progressivamente accentuato la funzione sociale della proprietà, intesa non più come diritto assoluto e inviolabile, privilegiando invece una visione in cui essa sia caratterizzata dall’attitudine ad essere sottoposta nel suo contenuto a limiti e ad imposizioni sempre più onerosi.
Del diritto di proprietà si è detto che è un “diritto elastico”, nel senso che per quanti limiti vi si impongano, non viene mai privato della sua sostanziale natura.
Ciò è indubbiamente vero. Purché si eviti che, nella ricerca di un equilibrato contemperamento tra interessi pubblici e interessi privati (i cui confini peraltro non sono sempre ben definiti) l’elastico non giunga al punto di rottura, lasciando aperta la porta alla violazione di principi e garanzie fondamentali accolti in tutte le legislazioni degli stati democratici soprattutto in tema di giusto indennizzo e, per quanto riguarda la Comunità europea, sanciti nell’art. 1 del Primo Protocollo addizionale alla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo firmato a Parigi il 20 marzo 1952 e ratificato in Italia con l. 4.8.1955, n. 848: ogni persona fisica e morale ha diritto del rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà salvo che per cause di utilità pubblica e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale.