Nell’attuale situazione di vuoto normativo, non esistendo nemmeno una disciplina tipica del contratto di cloud computing, si rende necessario analizzare nel dettaglio i servizi che ci vengono offerti dai noti gestori con posizione dominante nel mercato, almeno per essere consapevoli di quanto abbiamo guadagnato in facilità di utilizzo in mobilità e di quanto abbiamo invece perso in privatezza. Anche per quanto riguarda i contenuti tutelati dal diritto d’autore, nel dubbio sulla effettiva tutela che ci può offrire una normativa inadeguata ad un contesto internazionale, non resta che la soluzione di criptare i file concessi n licenza al fornitore di servizi cloud.
Questi brevi note servono a chiarire alcuni aspetti del cloud computing, su cui trovate alcune miei articoli in rete, con riferimento ai diritti d’autore nella fruizione dei servizi in cloud [1].
Giova subito precisare che nessuno dei fornitori di servizi cloud si fa cedere i diritti sui contenuti caricati sulle loro piattaforme: in teoria tali contenuti restano nella disponibilità dell’utente fruitore. Prendiamo ad esempio Google Drive, uno dei servizi più utilizzati dai navigatori in Rete. viene subito chiarito, nei “policies terms”, che i diritti di privativa restano in capo all’utente, non avvenendo cioè alcuna cessione.
Tuttavia i contenuti, ai fini della fruizione del servizio, devono essere concessi in licenza a Google, oltre che a non meglio specificati suoi “partners”, la quale può utilizzare “ospitare, memorizzare, riprodurre, modificare, creare opere derivate […] comunicare, pubblicare, eseguire pubblicamente, visualizzare pubblicamente e distribuire i suddetti contenuti“.
Va da sé la preoccupazione, a fronte di tale ampia previsione, comprendente in pratica ogni utilizzo previsto dalla normativa sul diritto d’autore, circa la titolarità e integrità dei nostri diritti. In effetti tale lista dei diritti acquisiti da Google pare esorbitare le esigenze di un servizio cloud, oggetto di un’autorizzazione (licenza) al godimento dei contenuti caricati limitata contrattualmente nel tempo, nel territorio e negli usi.
Oltretutto il corrispettivo di questi servizi apparentemente gratuiti è costituito in realtà dal trattamento dei dati personali dell’utente e dall’uso pubblicitario dei contenuti caricati: è proprio tramite lo sfruttamento di questi dati, e metadati frutto di elaborazione dei primi, che molti servizi cloud trovano un considerevole e mai trasparente vantaggio economico.
Ovviamente Google si fa garantire dall’utente licenziante circa i suoi diritti e la titolarità dei contenuti in modo da evitare contestazioni da terzi, ma suscita preoccupazione, sul versante dell’utente, la previsione di non meglio specificati “servizi automatizzati” che analizzano i contenuti “al fine di offrire funzionalità dei prodotti rilevanti a livello personale, come risultati di ricerca personalizzati, pubblicità su misura e rilevamento di spam e malware“. Ma che cosa significa questo?
Significa che Google può analizzare i nostri contenuti anche per scopi pubblicitari, vale a dire al fine di mandarci poi pubblicità mirata all’utente secondo i gusti scoperti e carpiti dalla suddetta analisi.
Considerazioni analoghe valgono anche per il principale concorrente Dropbox, ma sarebbe interessante esaminare tutti i principali servizi di cloud in un apposito articolo al di fuori di questa rubrica: nell’attuale vuoto normativo cittadini e imprese si trovano ad affrontare problematiche complesse che riguardano la privatezza dei dati e che non riguardano solo il diritto d’autore e le privative, dati i profili di internazionalità connaturati a questo servizio tipicamente delocalizzato.
Concludendo, a fronte di queste legittime preoccupazioni, non resta che una soluzione pratica, dal momento che anche il regime contrattuale ci viene imposto dai soliti potenti del Web: criptare adeguatamente i file caricati in cloud, almeno così nessuno potrà vederne in chiaro il contenuto, nemmeno i fornitori di servizi ai quali abbiamo dato la disponibilità dei nostri dati tramite licenza.
Ormai i software di cifratura sono facilmente reperibili e disponibili. Certo che sarebbe da incoraggiare la scelta di fornitori italiani, che ci darebbero almeno la possibilità di controllare la gestione dei dati e il rispetto delle normative nazionali e comunitarie. Ma sappiamo quanto sia difficile scardinare certe “logiche” di mercato e posizioni ormai acquisite dai poteri dominanti e a cui tutti siamo costretti.
avv. Giovanni Bonomo – ALP
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[1] Senza qui citare tutti i riferimenti a tali articoli, spiego qui al lettore, nel modo più sintetico possibile, di che cosa si tratta. Il cloud computing altro non è che l’evoluzione naturale del nuovo mondo interconnesso: l’accesso facilitato e rapido ad applicazioni, dati e software esterni al proprio PC. Tradotto letteralmente in “nuvola informatica“, il termine inglese rende bene l’idea del servizio, offerto da un provider all’utente, di memorizzazione, archiviazione, elaborazione di dati in un’architettura tipica realizzata in rete con software remoti e memorie di massa on-line.