Implicazioni e conseguenze della dichiarazione di zona «protetta» sulla circolazione delle persone e sul transito delle merci
A cura dell’avv. Cristiano Cominotto – presidente di A.L. Assistenza Legale e della d.ssa Cristina Sofia Barracchia
Le misure sempre più incisive adottate dal Governo per limitare i rischi di contagio del coronavirus continuano a modificare notevolmente le abitudini che compongono la nostra quotidianità.
Gli italiani sono chiamati ad operare sacrifici sempre più grandi, ma indispensabili per la tutela della salute di tutti i cittadini. Affinché la collaborazione di tutti gli individui risulti proficua, è tuttavia necessario che ognuno sappia esattamente in cosa si esplicano i divieti posti in essere dalla pubblica autorità e che si fornisca una puntuale risposta ad eventuali dubbi che la normativa può innescare.
Alla luce dell’ultimo decreto, firmato nella serata di mercoledì 11 marzo 2020 ed in vigore dal 12 al 25 marzo 2020, la «regola madre» rimane comunque la stessa: limitare al massimo gli spostamenti.
La dichiarazione di pandemia da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e le persistenti richieste provenienti dalla Regione Lombardia per una totale chiusura di tutte le attività, hanno indotto il Governo a decidere di inasprire ulteriormente le disposizioni precedentemente emanate e valide per tutto il territorio italiano – che continua a rimanere «zona protetta» – nel tentativo di contenere e contrastare il contagio in maniera più efficace.
Si dispone la chiusura totale delle attività commerciali al dettaglio – con la sola eccezione di quelle che vendono generi alimentari e di prima necessità – di bar, ristoranti, pub e dei reparti aziendali che non risultano indispensabili per la produzione, mentre resta garantito lo svolgimento dei servizi pubblici essenziali, comprese le attività accessorie.
Le industrie e le fabbriche potranno continuare a svolgere le proprie attività produttive a condizione che ricorrano ad adeguate misure di sicurezza volte ad evitare il contagio.
Viene invece confermato dal nuovo DPCM in vigore dal 12 marzo 2020 quanto già stabilito dal precedente decreto che ha imposto la limitazione degli spostamenti su tutto il territorio italiano a quelli strettamente necessari, giustificati da «comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità» o «motivi di salute».
Ma cosa significa precisamente «comprovate esigenze lavorative»?
Nonostante rimanga sempre possibile uscire di casa per recarsi a lavoro, il Governo invita a prediligere, tutte le volte in cui ciò sia possibile, il ricorso alla modalità “semplificata” di lavoro agile quale strumento prioritario da utilizzare nella gestione dell’emergenza, al fine di minimizzare gli spostamenti e le presenze sul luogo di lavoro.
Con il DPCM entrato in vigore il 12 marzo 2020 il Governo affianca poi alla modalità di smart working la raccomandazione ai datori di lavoro, sia pubblici che privati, di promuovere ed incentivare, ove possibile, le ferie e i congedi retribuiti per i dipendenti, confermando e rinnovando quanto già disposto a riguardo nei precedenti decreti (DPCM 8 e 10 marzo 2020).
Trattandosi di una situazione di emergenza si ritiene pacifico che la collocazione in ferie possa avvenire a prescindere dal consenso del lavoratore, così come accade per l’adozione dello smart working che, ogni qual volta sia possibile, risulta la soluzione da privilegiare.
Tenuto conto di ciò, le comprovate esigenze lavorative che giustificano lo spostamento per recarsi sul luogo di lavoro finiscono per riguardare quelle residuali ipotesi in cui la presenza dei lavoratori sul posto di lavoro sia necessaria per garantire la continuità produttiva e organizzativa dell’azienda, la cui attività sarebbe altrimenti soggetta ad una immediata paralisi. In questi casi è richiesto al datore di lavoro, anche in virtù del generale dovere che su di lui incombe di tutelare i propri lavoratori dal rischio biologico (D.Lgs. n. 81/2008) e di preservarne la sicurezza (art. 2087 c.c.), di procedere ad una solerte valutazione del numero di lavoratori che devono recarsi fisicamente sul luogo di lavoro per garantire la continuità produttiva e, una volta individuati, munirli di apposita dichiarazione che giustifichi lo spostamento.
È chiaro, dunque, che il semplice sussistere dell’esistenza di un rapporto di lavoro sia insufficiente per ritenere integrate le esigenze che giustificano gli spostamenti, in quanto ciò comporterebbe il venir meno dello scopo perseguito dal provvedimento.
“Comprovate” significa che si deve essere in grado di dare una dimostrazione della ragione dello spostamento, tramite un’autocertificazione o attraverso qualsiasi altro mezzo di prova idoneo.
Il modulo da utilizzare (e da fornire in caso di controllo) è quello fornito dal Ministero dell’Interno (scaricabile anche online) e di seguito riportato, valido per l’intero territorio nazionale: